Nacque presumibilmente nel 1416 a Borgo San
Sepolcro e qui morì nel 1492. La riforma fiorentina fu diffusa
nella Toscana orientale, in Romagna e nelle Marche del Nord, da
Piero della Francesca, discepolo di Domenico Veneziano (il
Vasari attribuisce al Veneziano l’introduzione in Toscana
della pittura ad olio) un naturalista dallo stile raffinato,
dotato di raro senso della luce. E’ uno dei numerosi spiriti
italiani in cui la genialità artistica si unisce alla ricerca
scientifica. Grandissimo prospettico e autore di un rinomato
trattato di prospettiva, non abusa mai a vuoto di tale facoltà,
il suo raro senso della luce e del chiaroscuro, la beltà
robusta dei nudi e l’esattezza dell’anatomia l’audacia
degli scorci, il ricco sentimento della natura preservano
dall’aridità la sua arte grave, maschia ed eroica, alla quale
le preoccupazioni teoriche conferiscono una corposità statuaria
e un’immobilità quasi spettrale. Non è che a Pietro faccia
difetto il senso del moto: ma egli coglie le sue grandiosi
figure e le sue scene durante un attimo di pietrificazione.
Lavorò per Sigismondo Malatesta a Rimini, più tardi per Nicola
V in Vaticano. Verso il 1466 terminò i suoi celebri affreschi
del “Coro di san Francesco” ad Arezzo, rappresentandovi
episodi della “Leggenda della Croce”. Qui fa tesoro della
ricchezza superba del suo genio plastico, creando un’umanità
superiore che sembra scolpita nel marmo colorato; erge sodi
giovani ignudi nella “Morte di Adamo”, spiega luminosi e
strani cortei in atrii corinzi e in fronzuti pomari nell’
“Arrivo della regina di Saba”; nella “Scoperta della Vera
Croce” si rivela potente mimico e limpido paesista; nella
“Battaglia di Cosroe” è fantasmagorico e tomultuoso; nel
“Sogno di Costantino” infine percorre, nella bellezza e
nell’ardimento dell’effetto luminoso notturno, il Raffaello
della “Liberazione di S. Pietro” e il magico luminista
Rembrandt. Nel 1469 Piero fu chiamato a lavorare alla Corte di
Urbino dal Federico da Montefeltro, il saggio condottiero e
mecenate: e fra l’altro lo dipinse in un prezioso dittico,
oggi agli Uffizi, le sembianze del Duca e della Duchessa con una
efficacia psicologica e panoramica fa pensare alle più belle
prove del ritratto fiammingo. Attestano l’energia e la gravità
del suo temperamento la nobiltà della sua arte numerose opere
sparse nelle collezioni d’Italia e di Europa: fra le più
importanti si citano la “Resurrezione”, affresco nel Palazzo
Municipale di San Sepolcro, il polittico della “Madonna della
Misericordia” in quella Pinacoteca, La flagellazione di
Cristo, nella Galleria di Urbino, e la grande pala, con la
“Madonna dei santi” nella Galleria di Brera a Milano,
attribuita da una parte della critica al suo allievo Fra’
Carnevale da Urbino. L’influenza di Forlì, Luca Signorelli,
il Bramante, Lorenzo da Viterbo. Francesco del Cossa diffondono
rispettivamente in Romagna e nelle Marche, nell’Umbria e nel
Lazio, in Lombardia e a Ferrara, quel nuovo senso maschile e
imperioso della forma, quella valutazione esclusiva del valore
plastico, all’infuori dai lenocinii miniaturali e dalle grazie
decorative. La sua potenza diffusiva benefica non è
paragonabile che a quella di un grande pittore suo contemporaneo
che gli assomiglia nella sodezza dello spirito: Andrea Mantegna.
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